lunedì 22 ottobre 2012

Manzoni - Museo della liberazione, uscita lato destro.

Ripercorrendo la memoria di via Tasso e della Resistenza.

Manzoni, museo della Liberazione, uscita lato… destro. È un metallico speaker della metropolitana che passa quasi inosservato al nostro cervello che lo bypassa senza nemmeno starci a pensare, reso come un sistema isolato da un paio di cuffiette ermetiche o da una consueta fretta. Vale la pena di scostare l’auricolare, almeno uno solo. Il museo della Liberazione è situato in via Tasso, quella che oggi è una delle tante vie di Roma, nemmeno tanto chic, nemmeno tanto piena di turisti e pizzerie. È un via un po’ sui generis silenziosa, tranquilla, poco trafficata; si ha quasi la sensazione di passare in un cono d’ombra e silenzio stretto tra due fila di piccole palazzine tipicamente romane, vagamente pallide, vecchie, derelitte seppur curate per renderle abitabili anche nel XXI secolo.
Il cono d’ombra è il velo nero della storia e il silenzio è il rispetto non tanto per chi è morto, quanto per chi ha combattuto e sofferto ingiustamente. Ai tempi del nazi-fascismo via Tasso era una sorta di entrata all’Inferno, con tanto di Caronti biondi fieri delle loro croci uncinate che trascinavano anime riluttanti nelle fauci dell’Averno per scontare la tortura che più si confaceva ai loro orrendi crimini. Crimine, entità facile da percepire quanto arbitraria in tempo di guerra.
Via Tasso, la via che all’epoca non era nemmeno pronunciata per quanto orribile fosse il suo spettro, era un carcere, un palazzo di tortura, un fortino tedesco senza regole, senza pietà che aveva il solo scopo di tenere a freno la turbolenta popolazione della città che era stata abbandonata da tutti, dal re, da Mussolini imprigionato, dai membri del governo ed era “aperta”, cioè in uno stato di resa incondizionata che avrebbe dovuto garantirle se non altro la pietà che si ha per i corpi agonizzanti, ma che in realtà si è trasformato nell’anarchica condizione ideale per la vendetta di Hitler e per gli sfoghi dei suoi soldati, furiosi con i traditori italiani, duri, superiori.

Roma non si è mai arresa al suo destino, per tutto il tempo in cui ci sono stati i tedeschi gli attentati erano comuni, le donne tenevano nascosti i condannati a morte o i destinati al carcere, gli impiegati comunali stampavano false carte d’identità, il “Fate Bene Fratelli” nascondeva rifugiati politici in finti lazzaretti producendo false cartelle cliniche; questi erano i criminali, rei di dare una speranza. La risposta tedesca era semplice: uccidere la speranza con la paura, l’eroismo quotidiano con il carcere di Via Tasso. Celle buie, finestre murate, corpi ammassati in attesa di essere fucilati per uno o per un altro motivo - tanto sulle pallottole non c’è scritta la propria colpa - silenzio, paura, camicie sporche di sangue, storie di uomini e donne, partigiani e sfortunati che, acchiappati come insetti, venivano sbattuti lì dentro senza rispetto per la loro storia; ma tanto le identità non hanno grande importanza in guerra, solo i numeri la hanno.
I loro pensieri vivono in questo cono d’ombra silenzioso, nelle frasi graffiate come testamenti di un’identità che non ha potuto vivere, nei segni di una resistenza psicologica strenua.
Quell’edificio di via Tasso oggi è diventato un museo, cinque piani di celle ormai aperte e testimonianze di persone morte perché il Fuhrer aveva in odio gli italiani traditori, di gesti di affetto proibito come frasi d’incoraggiamento ricamate su un calzino e di gesta eroiche individuali che mai potranno essere celebrate abbastanza, testimonianze tangibili di quella follia che ha trovato il suo orrido acme nella II Guerra Mondiale.
Noi siamo sulla metro, noi siamo lontani, forse non riusciamo nemmeno ad immaginare, siamo
indifferenti e affaccendati ma un giorno dovremmo trovare il tempo di imboccare la famosa uscita sul lato destro, se non altro per riflettere e capire temi ed ideologie che ancora oggi qualcuno ha il coraggio di sostenere e difendere.

Simone Caliò, IIID

Nessun commento: