martedì 5 giugno 2012

Fatti non foste a viver come bruti

Noi vogliamo, per quel fuoco che ci arde nel cervello, tuffarci nell'abisso, inferno o cielo non importa. Giù nell'ignoto per trovarvi del nuovo.
                                                                                                       Charles Baudelaire

C’è una linea sottile che unisce l’uomo e il progresso, una linea sottile che lega personaggi come Dante, Giotto, Leonardo o Boccaccio: è l’ardore della conoscenza, la frenesia di travalicare i limiti imposti dalla tradizione. Questa frenesia fatta di frasi, scoperte, idee altro non è se non il basamento del nostro presente; quella smania di sovvertire l’ordine costituito è il motore primo del progresso. E’ proprio dell’uomo infatti essere sempre protratto in avanti verso un orizzonte di novità, è proprio dell’uomo non accontentarsi mai delle risposte che già possiede, ma ricercarne sempre altre per le domande che continuamente si pone; già Cicerone scriveva infatti “Dunque è tanto innato per noi l’amore della conoscenza”.
L’esempio più lampante e significativo di questa visione umana si materializza nel XXVI canto dell’Inferno della Divina Commedia, comunemente chiamato “Il canto di Ulisse” che appare come un ritratto dell’uomo in generale. In esso Dante non condanna l’astuzia di Ulisse, né il suo utilizzo a tratti amorale, ma la sua innata e insaziabile sete di conoscenza tanto elevata da scontrarsi con il Divino. Per Ulisse, che dunque diviene paradigma del genere umano, “l’ardor del divenir del mondo esperto” è talmente forte da non trovare degna opposizione né nell’amore per la moglie, né nella pietà per il padre o nella dolcezza del figlio; ma la sua “follia” accecata dalla sete di conoscenza lo induce verso un viaggio fatto di pericoli e scoperte.



Oggi per noi, assolti dalla visione medievale dantesca, l’Ulisse tratteggiato nel canto assume i contorni di una figura eroica che,conscia della pericolosità delle sue azioni, non indugia, ma anzi facendo “dei remi ali al folle volo” si stacca da una tradizione per toccare le alte vette della novità. E lasciamo che la linea scorra veloce fra nomi quali Esiodo, Socrate, Lucrezio o ancora Machiavelli, Bruno, Galilei; lasciamo che unisca senza indugio tutte quelle personalità che oggi ci lasciano un’eco di fiducia e speranza.
Automatico allora viene il confronto con il nostro oggi, con la nostra società per quale ormai il progresso è divenuto sinonimo di modernità, non una modernità di pensiero, non quella che attribuiamo a Caravaggio, Gaudì o Picasso, ma una modernità solo ed esclusivamente tecnologica. Sembra come se ormai l’uomo abbia saziato completamente la sua sete di conoscenza, cibandosi di scoperte più o meno recenti, e ora sia solamente una macchina tecnologica che mira alla perfezione dell’esistenza, sempre mossa dalla ricerca pedissequa dell’impossibile. Alessandro Baricco nel suo “Emmaus” accusa la religione di questa colpa: essendo stato “viziato” da un’idea che celebra fenomeni razionalmente impossibili l’uomo è di conseguenza proteso alla ricerca di quest’impossibilità.
Ma è un uomo letargico, assonnato, spento. Un uomo che non sembra più “faber fortunae suae”, bensì un inerme attore di una tragedia scritta da qualcun altro; un uomo che si pone forse ancora delle domande, ma sembra non voler dare loro risposte. Un uomo che sembra spaventato o forse intimidito dal glorioso passato che porta con sé. Un passato pesante, immenso, troppo per poter pensare non di superarlo, ma anche solo di eguagliarlo. Un uomo che non percepisce che se nel corso della storia ognuno si fosse spaventato così tanto del passato che forte si eternava dinnanzi a lui, oggi il mondo avrebbe senz’altro un aspetto ben diverso. E di conseguenza non si muove, non cammina veramente, ma si lascia trascinare; non prende il largo insieme alla storia, ma si arena con il presente. E quel brivido che di natura è insito nella sua persona viene soffocato, ammutolito, spento da una mera quotidianità, da una mera copia, da una mera abitudine. Ma come Truman Capote faceva dire
alla sua Holly Golightly nel suo celeberrimo capolavoro “Colazione da Tiffany”: “ Chi si abitua a tutto tanto vale che muoia”.

Silvia Stacchiotti, II D

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