lunedì 4 giugno 2012

Sono solo parole

Romanzo a puntate - Parte II

Nel vento c’era quel pungente profumo di un inverno appena accennato, a terra una coperta di foglie fradice. Dietro l’angolo, il nuovo anno incalzante. Da qualche parte, l’estate appena trascorsa. Camminavo a passo svelto, il volto infreddolito nascosto nel cappuccio, la musica sparata nelle orecchie, la mente ancora addormentata, sconnessa, confusa nei suoi continui pensieri opprimenti,
soffocanti ma, nel profondo, sotto una spessa coperta di vergogna e di paura che non osavo sollevare, dolci, dolcissimi. Incompresi, in primis da me stesso. Ma dolci, terribilmente dolci. Dire la verità, essere onesti, per alcuni è uno dei migliori pregi che l’essere umano possa avere. Io, invece, volevo una bugia qualsiasi, una qualsiasi cazzata, tutto fuorché la verità.
La fermata era, come sempre, gremita di persone. Ragazzi persi dietro il fumo di una sigaretta, una donna anziana con le cartelline delle analisi strette al petto, ragazze sorridenti con le bocche già piene di chiacchiere. “Sperare che domani arrivi in fretta e che svanisca ogni pensiero lasciare che
lo scorrere del tempo renda tutto un po' più chiaro." Un po’ più chiaro.
-Ti voglio bene. <3 -  diceva un sms appena arrivato da Barbara. Svanisca ogni pensiero.
Bloccai per un attimo l’i-pod.
L’incessante e assordante rumore del traffico, così vuoto nella sua frenetica monotonia di ogni mattina, avvolgeva come una cappa la città, ma quel rumore confuso, insensato e ripetitivo nella sua noiosa insensatezza era per me rassicurante, come le parole di una ninna nanna ripetute all’infinito finchè, quando ormai si è caduti nel mondo confuso del dormi veglia, perdono il loro significato.
Play. “Sono solo parole parole parole, parole e ora penso che il tempo che ho passato con te
ha cambiato per sempre ogni parte di me.”
-Ti voglio bene anch’io. <3 -
Dal finestrino sporco e appannato dell’autobus scorrevano tante immagini senza senso, veloci, colorate, sfocate. Poi, piano piano, alberi, case, persone. E di nuovo confusione, colori, linee e macchie senza forme. Dopo la terza fermata salì Damiano, il viso arrossato dal freddo immerso nella sciarpa blu, i capelli neri, corti, leggermente alzati dal gel appena sopra la fronte, gli occhi scuri e svegli che cercavano in silenzio un posto libero. “Siamo troppo distanti distanti tra noi ma le sento un po’ mie le paure che hai vorrei stringerti forte e dirti che non è niente posso solo ripeterti
ancora sono solo parole par.. I got a hangover, wo-oh! I’ve been drinking too much for sure I got a hangover, wo-oh!”
-We Marco!-
-Oh Da! Ti ho tenuto il posto.-
E si sedette accanto a me, dandomi un pugno leggero sulla spalla, così, per scherzare. Così, come due amici. Come due fratelli. Ricambiai con un sorriso. Così, come un amico…

-Che ascolti? Dammi una cuffia.-
-Taio, Hangover.-
-Bella bella.-
“So I can go until they close up, eh and I can drink until I’m told up, eh and I don’t ever ever want to grow up, eh!” E iniziò prima a battere il tempo con la mano sui jeans, poi a muovere le labbra, cantando in playback, poi a canticchiare ad alta voce, spensierato, gli occhi chiusi e il viso rilassato, il sorriso tranquillo e beffardo, il sorriso di chi sa cosa vuole, di chi sa chi è, di chi non ha dubbi e insicurezze. Il sorriso di Damiano, bastardo ma sincero, coglione ma buono.
-Ma quindi il motorino?- Mi chiese, come se fosse ritornato all’ improvviso sulla terra, lì, accanto a
me.
-Me lo danno domani, hanno detto che ora è ok.-
-Daje che mi sono rotto il cazzo di sto autobus!-
“Oh oh oh oh oh I’m on the roof if you don’t know well now you know”
-Come va con Barbara?-
-Va…-
E iniziai a ridere. La mia era una risata sarcastica, amara. Anche un po’ forzata. Per nascondere l’imbarazzo, per nascondere la confusione, le mie paure, le mie certezze.
-Va alla grande, come vuoi che vada?-
Barbara. Teoricamente stavamo insieme…
Lei mi abbracciava spesso, mi sentiva fragile, così diceva. Mi diceva che ultimamente ero triste. Così diceva.  Mi accarezzava spesso i capelli, lentamente, con dolcezza. La conoscevo da una vita. Figlia di amici storici dei miei, avevamo condiviso, fin da piccoli, varie vacanze, avevamo per anni distrutto le siepi spennacchiate del giardinetto davanti casa mia, giocando con il pallone o a nascondino; avevamo fatto elementari e medie nella stessa classe, ma ora lei frequentava il linguistico, io il commerciale.
Mi conosceva più di Damiano. Non mi diceva mai “ti amo”, come si fa in tutte le altre coppie, perché pensava che quelle fossero due parole che, dette da noi che ci conoscevamo da sempre, come due fratelli, perdevano ogni significato divenendo ridicole e vuote, stupide. Mi diceva spesso “ti voglio bene”, abbracciandomi.
-E tu con Giulia?-
Ora rise lui. Spontaneamente. Era come se al suono del nome  “Giulia” gli si fosse illuminato il viso. O era un’ impressione mia.
-Va, va alla grande! Oggi pomeriggio andiamo al cinema…Q uanto è bona.-
Sorrisi. Ma dentro bruciavo. Gli diedi una pacca sulla spalla.
Ma dentro urlavo di rabbia. Piangevo di rabbia. Un grido silenzioso. Lacrime asciutte.
La stessa rabbia provata da un animale chiuso in una gabbia che ogni giorno vede a un palmo di distanza la liberà senza però poterla assaporate, divisa da lui da una spessa e crudele lastra di vetro, che mostra ma priva, promette ma nega.

                                                           *   *   *

Il suono stridulo della campanella, nostra amica, nostra complice, interruppe il discorso della prof di matematica, imperterrito nel suo canto stonato e armonioso insieme.
All’uscita inaspettatamente vidi Barbara corrermi incontro, lo zaino ciondoloni su una spalla, i capelli morbidi agitati dal vento. Mi abbracciò forte.
-Sorpresa!-
Ricambiai l’ abbraccio, baciandola sulla fronte e accarezzandole una guancia con una mano.
Sentivo gli altri ridacchiare dietro di noi, per poi andarsene e lasciarci soli. Andammo al parco.
Ci piaceva stenderci sull’ erba l’ uno accanto all’ altra, mano nella mano, gli occhi dell’ uno negli occhi dell’ altra. Faceva freddo. Ci piaceva parlare così per ore, senza preoccuparci di tutto il resto, come facevamo da sempre. Faceva molto freddo.
La suoneria del mio telefono ci riportò bruscamente sulla terra. Damiano.
-Da? Che vuoi?-
-Sto incazzato nero, non sai che è successo. Quella troia, puttana. Vaffanculo! Sono andato ad aspettarla fuori scuola e lo sai che stava a fa? Puttana! Si stava baciando con un coglione di merda!-
-Giulia?-
-Sì, quella troia del cazzo. E dopo sarebbe anche uscita con me? Ma io ci ho chiuso! Lei e quel frocio del cavolo che si stava baciando! Ma se ne andassero a ‘fanculo tutti e due, bastardi!-
Frocio.
Quella parola, detta così, concepita come una delle offese peggiori da poter lanciare ad un ragazzo, quella parola detta così con sfregio, mi seccò la gola privandomi delle mie parole.
Per lui “frocio” era un insulto. Mi salì un groppo alla gola, involontariamente, fuori dal mio controllo. Mi sentii umiliato, ferito, inconsapevolmente.  Bene.
-Marco? Ma ti sei rincoglionito? Cioè io ti sto dicendo una cosa e nemmeno mi senti?-
Ingoiai le lacrime.
-Te l’ avevo detto che era una puttana, e ora non so che dirti.-
-Infatti! Sta bastarda! Passo da te sta sera?-
Frocio.
-No, devo andare a fare dei giri con i miei, mi dispiace. Ci vediamo domani.-
-Ok, ciao Ma. -
Non capivo cosa stesseaccadendo, quel vuoto pesante che avevo nello stomaco, quella voglia di piangere, quella parola assordante che continuava a strillare nella mia mente, come un fischio continuo e straziante che buca le orecchie, tormenta la testa, azzera ogni pensiero. Frocio. Non capivo perché tutto questo casino. O forse sì. Mi sentivo solo, io e il mio fischio. O forse il mio
fischio soltanto, senza di me, perché ormai non riuscivo neanche più a riconoscere me stesso.
-Marco che è successo? Perché hai gli occhi lucidi?-
-Eh? Mi sa che mi sta venendo la febbre, non sto bene. Vado a casa, scusa.-
-Ok, poi ti chiamo domani. Riposati.- E mi baciò su una guancia. Volevo scappare. Mi faceva schifo, mi facevo schifo, mi facevano schifo tutti. Mi alzai e velocemente me ne andai, nascondendo il volto bagnato dalle lacrime nel cappuccio, respirando piano come fa un bambino che, per orgoglio, dopo
essere stato strillato dalla mamma, non vuole farle vedere che piange. Tirai un calcio ad un sasso, e mi sentii stupido. Come quel sasso che rotolava inerme, sbattendo sul terreno silenzioso.

Eleonora Masi

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