venerdì 9 novembre 2012

La storia di uno specchio: io.

Una frazione di secondo. Un istante. Un palpito. La mia consapevolezza di esistere si manifestava nel momento in cui il suo sguardo si posava sulla mia immagine.
Nessun altro era in grado di farmi sentire così. Quando i suoi occhi s'incontravano con i miei, sentivo la vita esplodermi nel petto. Uno sguardo che attraversava il mio, lo perforava con una forza tanto profonda da restituirmi quell'identità che così raramente riuscivo a percepire.
Conosceva a memoria ogni dettaglio del mio corpo; sapeva sorridermi con una dolcezza tale da lasciarmi ammutolita e sussurrarmi, talvolta, con voce quasi impercettibile le cose che aveva nel cuore. Sapevo di essere ciò che vedevo e ne avevo la conferma nel momento preciso in cui lei mi guardava. Ero preda di un entusiasmo quasi puerile quando i nostri sguardi s'incrociavano.
Eppure, pian piano, l’ho vista morire davanti ai miei occhi e sono morta con lei. L’ho accompagnata ogni giorno, ogni ora nel suo lento declino, nella follia più cieca e crudele che l’ha divorata. Mi ha uccisa uccidendosi. Ha riversato su di me un odio di cui non la credevo capace, accusandomi di essere responsabile del suo dolore, di farla soffrire.
Io sono nata dal buio di una stanza e la luce di un neon mi ha permesso di prendere forma. Sulle sue labbra si è posato il mio primo sguardo. Rosse, sorridenti. Credo di aver iniziato ad amarla in quell’esatto momento, guardandola passare il rossetto sulle sue labbra perfette, la spazzola fra i
capelli. “Più mascara!” disse un giorno, fissandomi dritta negli occhi e, improvvisamente, seppi di esistere. Ma la mia vita si accende e si spegne come il neon della stanza dove io aspetto che torni. E sono ormai giorni, mesi forse che attendo e penso diessere morta. Ma non saprei definire la morte se non come l’assenza di lei, un non essere.

C’è stato un tempo in cui mi osservava ridendo. Una volta, in preda ad una felicità frivola e frizzante sfiorò le mie labbra, sussurrandomi maliziosamente “Perfetta” e spegnendo la luce, lasciandomi scomparire nell’ombra, intontita da una strana vertigine.
Non ho mai compreso realmente cosa cambiò in lei. Iniziò a guardarmi sempre più spesso, sempre più stanca, sempre più triste. La prima volta che pianse scoprii di provare dolore. Pianse a lungo, scossa da fortissimi singhiozzi e, a partire da quel giorno, le sue visite cominciarono a diventare ossessive, la sua analisi febbrile. Scandagliava con attenzione esagerata ogni dettaglio del corpo, toccava, strizzava, torturava la pelle fino a impazzire.
Cominciò a diventare ogni giorno più magra. I suoi occhi, prima brillanti, divennero opachi, spenti, immensamente sofferenti.
Una notte venne da me. Sapevo che era rimasta sveglia fino a quel momento senza riuscire a prendere sonno, il suo viso grondava stanchezza, un’enorme e disperata stanchezza che la faceva apparire ancora più grigia e sottile. Si mise a fissarmi. Il suo sguardo era immobile, insignificante. Le lacrime le scivolavano dalle guance sul petto, poi lungo la pancia. Le mani cominciarono a tremarle convulsamente, il volto a contorcersi in smorfie di rabbia e frustrazione violenta. Si conficcò le unghie nel minuscolo polso, sempre piangendo, cercando di placare con quel male un male più grande e più oscuro.
Soffrivo con lei e come lei. Provavo, per qualche strana forma di pietà o empatia, tutto il dolore che si trascinava dietro. Lei non poteva capire e riversava tutto il suo odio e la sua furente disperazione contro di me. Chiedeva risposte.
Un giorno, preda del solito delirio, mi scagliò addosso un bicchiere e ricominciò a piangere, a piantare le unghie nei polsi, senza parlare.
L’ultima volta che la vidi non indossava vestiti. Era completamente nuda davanti ai miei occhi, minuscola, invisibile, incolore. Sembrava trasparente. Un fantasma. Non pianse, non mormorò nulla, forse non respirò neppure. Non era arrabbiata, non era nulla. Allungò la piccola mano verso di me, per accarezzarmi o semplicemente toccarmi ancora una volta, e cadde a terra.
Senza alcun rumore, senza aggrapparsi a niente. Silenziosa e leggera come una goccia di pioggia.
I suoi occhi furono l’ultima cosa che vidi di lei e di me, prima di scomparire per sempre.

Silvia Rinaldi, IID

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