martedì 7 febbraio 2012

Io non sono sbagliato, prima puntata

Ok. Va tutto bene. Un sorriso, forse finto. Un respiro, per contenere rabbia repressa. Contro chi? Non lo sapevo. Un passo, lento, infinito. Una corsa immobile. Avrei voluto correre, correre via da tutto ciò, correre via da loro, da me stesso. Un altro sospiro. Un altro sorriso. Lui mi diede una pacca sulla spalla. Sorrideva. Lui scherzava. Lei mi abbracciò. Un cellulare trasmetteva all’infinito la stessa assordante canzone, note sconnesse tra loro che non esprimevano né gioia, né tristezza, solo battiti, così, senza senso. Così, senza senso come i battiti del mio cuore.
Un altro sorriso. Voglia di urlare. Ma perché? L’abbraccio si era sciolto. Che diceva lui? “…Giulia…” Boh. Rabbia. Alzai lo sguardo: un cielo azzurro, privo di ombre, così limpido e terso era in netto contrasto con i miei pensieri così confusi, affollati e opprimenti, così sfuggenti. Avrei voluto poterli afferrare per fare chiarezza, ma avevo paura, paura di me stesso. Quel cielo era sprecato per la giornata. Voglia di piangere. Non importa. “Cammina, cammina ma non correre, non scappare,” mi dicevo, “…autocontrollo”. Che schifo l’autocontrollo, la razionalità, la calma, la pazienza, tutte difese inutili che ti proteggono dall’esterno lacerandoti dall’interno. La suoneria di un telefono mi riportò sulla terra.
-Che hai?
-Che ho?
-Boh sei strano.
-Sono stanco.- Sorriso. Sospiro. Passi. Sospiri, musica, sorrisi, abbracci, rabbia, tristezza, amore, odio, voglia di piangere, voglia di correre, voglia di evadere, voglia di volare. Voglia che tutto quel che c’era non fosse mai esistito. Voglia che tutte quelle bugie scomparissero al vento. O forse verità? Voglia di picchiarlo, di riempirlo di pugni, di spaccargli il naso e di vederlo soffrire come stavo soffrendo io a causa sua… o a causa mia? Voglia di abbracciarlo. Voglia di tornare indietro nel tempo, a quei pomeriggi di cazzeggio davanti la tv, a quelle partite infangate nel campetto dietro scuola, a quell’ intesa, ai tempi di quell’ amicizia che lui, inconsapevolmente, stava portando via. Dicevano che forse domani avrebbe piovuto. Domani? Domani ci sarebbero stati solamente i soliti sorrisi, la solita rabbia, i soliti sospiri. Il solito autocontrollo. Giulia. Ma vaffanculo. Lui e Giulia. Due coglioni.
Lei, perché mi aveva preso in giro con le sue carezze, i suoi baci, con quei suoi capelli morbidi e ricci, con quei suoi occhi neri, profondi, irraggiungibili. Due pozzi di cazzate, ecco cosa, due pozzi di petrolio tossico, velenoso, inquinante. Lui, perché si era fatto trascinare nella stessa pozza l’anno successivo. Lui, perché si stava facendo trasformare da quella troia in un manichino, in un burattino da vestire e pettinare, in un bambolotto inerme. Di lei non mi importava più nulla, era solo una puttana, ma lui non doveva cambiarlo in questo modo, secondo i suoi umori e i suoi gusti. Avevo superato la delusione, l’avevo digerita in meno di due mesi e Damiano se lo poteva sposare, ma non doveva interferire nella nostra amicizia, o in quel che ne rimaneva. O così dicevo a me stesso. L’allegra comitiva si era fermata sotto l’ombra fresca del porticato del bar, aspettando che Richi comprasse le sigarette. Barbara mi prese sotto braccio e mi guardò un attimo, con quello sguardo che avrebbe potuto perforare anche il cemento. Poi mi baciò, dolcemente, con la stessa grazia di un fiocco di neve quando cade a terra. Volevo piangere. Non me ne fregava niente né di lei, né di Giulia. L’errore ero io. Ero io ad essere sbagliato. Ero io ad essere diverso da loro. Ero io a non saperle amare. Non potevo, né volevo, né credevo di non volere e di non potere. Ero così confuso, intrappolato in una verità che stava divenendo sempre meno oscura, che stava divenendo sempre più straziante e imbarazzante nella sua chiarezza, che stava stravolgendo la realtà in cui vivevo e le certezze che avevo da sempre adottato come guide sicure, o che gli altri mi avevano imposto come tali. Tutto ciò in cui credevo era diventato un ridicolo paradosso, un incubo in cui il “mostro” ero io stesso. Mostro? Io non ero un mostro. Io non ero sbagliato. O almeno non avrei voluto sentirmi così.

Eleonora Masi, IA

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